Perché il disagio psichico fa tanta fatica ad essere riconosciuto? Perché dall’orrore della reclusione dei “matti” nei manicomi abbiamo avuto bisogno di cadere nell’errore opposto, quello della negazione della malattia?
Io lo so, per esperienza, che avventurarsi nei discorsi che riguardano questo argomento equivale ad entrare in un labirinto con le caratteristiche di una cristalleria, ma i cristalli ritengo che debbano essere le persone che stanno male e che chiedono aiuto, in modo più o meno esplicito, e non le varie forme di poteri che si sono impossessate del complesso territorio del disagio psichico.
Non riconoscere la malattia, giungere a negarla, equivale a mio avviso a condannare alla cronicità, quando non all’abbandono, pazienti che avrebbero il diritto di veder riconosciuto il loro malessere, al quale va data la dignità di malattia.
Perché la definizione di “paziente” sembra addirittura offensiva quando ci si riferisce a persone interessate da un disagio psichico, mentre la usiamo con giusta disinvoltura quando siamo di fronte a problemi cardiologici, ortopedici, oncologici, e via dicendo? Perché abbiamo bisogno di dare la colpa del disagio sempre e solo alla società, concetto peraltro tanto ampio quanto indefinito e indefinibile, ignorando o sottovalutando gli elementi contenuti nella storia personale, familiare, relazionale delle singole persone, elementi che potrebbero rappresentare la piattaforma dalla quale partire per cercare una via d’uscita dalla sofferenza spesso insostenibile di questi pazienti?
Credo che tutto questo abbia a che fare con una sorta di ipocrisia che ci spinge a camuffare dietro parole apparentemente più “morbide” concetti che ci spaventano, perché hanno a che fare con una presa di coscienza che passa attraverso un lavoro di riflessione, di elaborazione che merita tempo e pazienza, e che certamente è impegnativo e faticoso sia per il paziente che per il terapeuta che accetta di prendersi carico di queste situazioni tanto complesse quanto delicate.
Io trovo poi anche una confusione nella definizione dei fattori che si trovano all’origine delle patologie psichiatriche. La prima confusione è quella tra i concetti di colpa e di responsabilità. Molti critici della psicoanalisi affermano che è una fissazione anacronistica e quasi banale e scontata la colpevolizzazione della famiglia della persona sofferente nella genesi del disagio. Ma il concetto di colpa implica una volontà o quanto meno la consapevolezza di atti che provocano un danno all’Altro. Molto diverso è il concetto di responsabilità, nel quale vi è una ricaduta, positiva o negativa e financo distruttiva di comportamenti attuati da un soggetto nei confronti di un Altro senza la consapevolezza del danno provocato, o addirittura con l’intenzione di fare del proprio meglio. In quest’ottica, anche la famiglia nell’ambito della quale si sviluppa un caso di disagio psichico è essa stessa sofferente, è essa stessa vittima di una dinamica non compresa e talora difficilmente comprensibile che in qualche modo rappresenta una sorta di circolo vizioso destinato a perpetuarsi fino al momento in cui la catena di dolore non venga spezzata attraverso il prendersi cura di un segreto, di un “non detto” che crea angoscia e sofferenza.
La psicoanalisi non è lo strumento di giudici che provano gusto a processare, e regolarmente condannare, una famiglia che crea malattia, ma lo strumento per cercare una sorta di rappacificazione in uno scenario di guerra, una sorta insomma di mediazione diplomatica tra le parti coinvolte nel contesto in qualche misura ammalato che ha come obiettivo non la condanna senza appello di qualcuno, ma il ripristino della possibilità di affrontare la propria esistenza serenamente, recuperando la libertà nella gestione della propria vita.
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